Enrico D’Ambrosio è il parroco di Campagnola (un quartiere di Bergamo) dallo scorso settembre. Abbiamo ritenuto opportuno intervistarlo in quanto è stato oggetto di polemica per aver posto un bambino straniero, avvolto in una coperta termica, vicino all’altare durante la messa di Natale. In passato ha accolto in casa sua a Cenate Sotto prima un senzatetto e poi alcuni migranti. Inoltre, volevamo conoscere la sua storia.
Il parroco è nato il 18 dicembre 1964 ad Alzano Lombardo ed è vissuto a Nese. È entrato in seminario a 14 anni, ha fatto il liceo e un anno di teologia. È stato ordinato sacerdote il 26 maggio 1990, poco dopo è diventato curato a Scanzo e poi è stato trasferito a Ponteranica. Successivamente il vescovo Amadei gli ha permesso di continuare i suoi studi alla facoltà teologica di Milano. Dal 2007 al 2018 è stato il parroco di Cenate Sotto.
Sappiamo che ha accolto un senzatetto, ci può raccontare questa esperienza?
La mia esperienza è iniziata nell’inverno del 2011 quando, con la comunità di Cenate Sotto, si era pensato di organizzare un progetto di accoglienza di una famiglia italiana. Purtroppo, per motivi burocratici, non fu possibile realizzarlo in tempi brevi, perciò decisi di ospitare in casa mia un bergamasco, che da 17 anni viveva per strada ed aveva problemi di alcolismo. La nostra “convivenza” è durata fino al 2015 e, nonostante non sia stata facile, posso dire che alla fine di questi cinque anni ho conosciuto un uomo nuovo, rinato, che attualmente vive a Bergamo, in una casa popolare. Ora lui è una persona responsabile, indipendente e volenterosa.
Sappiamo anche che, in seguito, ha ospitato 5 ragazzi stranieri. Ci può raccontare com’è andata questa volta?
Spinto dall’Angelus del Papa, nel quale proponeva a tutti di compiere opere di accoglienza, ho deciso di ospitare in casa mia 5 ragazzi stranieri, tre provenienti dal Mali e due della Costa d’Avorio. Inizialmente erano mal visti dalla comunità di Cenate Sotto, ma col passare del tempo questi giovani sono stati accettati e hanno iniziato a far parte della vita attiva della parrocchia. Grazie a questa esperienza ho imparato a conoscerli e ho ascoltato le loro storie.
Una in particolare mi ha colpito. Si tratta di un ragazzo che, nel suo paese, lavorava come sarto del presidente allora in carica. In quel periodo un dittatore prese il potere, perseguitando tutti coloro che non lo appoggiavano, compreso il povero ragazzo. Gli incendiarono il negozio dove portava avanti la sua piccola impresa tessile, e gli uccisero la moglie. Fortunatamente lui riuscì a salvarsi perché quel giorno si trovava in un mercato di un’altra città. Con le lacrime agli occhi riuscì a raccontami anche che, quando tornò e scoprì l’accaduto, fu obbligato a lasciare il paese nonostante lui fosse contrario. Riuscì ad arrivare in Italia dopo un lungo ed estenuante viaggio.
Cosa pensa dell’immigrazione?
Penso che l'immigrazione sia un fenomeno senza tempo e inevitabile, quindi ignorare il problema non serve a niente. Fare ciò ci ha solamente portato a rimanere indietro rispetto a tutti gli altri paesi europei.
Preferirisce pochi centri di accoglienza grandi o più centri di accoglienza di minori dimensioni?
Per quanto mi riguarda, i centri di accoglienza (Cas) troppo grandi sono problematici sotto diversi punti di vista: ad esempio, chi vive in questi posti ha maggiori difficoltà ad integrarsi nella vita dei paesi in cui la struttura si trovano; non avendo lavoro e non potendo lavorare senza un permesso di soggiorno regolare, rischia di più di essere coinvolto in attività criminali o di essere sfruttato. Ad esempio a Casazza, dove sono presenti più 80 persone, è difficile che si instauri un clima di convivenza con il resto del paese: alcuni cercano di stare all’interno della struttura il più possibile, perché, uscendo, rischiano di venire adescati; e non sempre si riescono a controllare 80/90 persone. Dobbiamo anche dire che il paese è intimorito, di conseguenza non c’è interazione tra le due culture. Al contrario, quando l’accoglienza riguarda un numero più piccolo, è più facile creare un contesto familiare e anche i cittadini sono più coinvolti.
Grazie a questo legame di tolleranza e rispetto reciproco tra ospitati e ospitanti si verificano spesso scene di umana comprensione: a Cenate è capitato che quando uno dei membri della comunità ha avuto un problema, come lutti o difficoltà familiari, anche i migranti si sono riuniti con lui, pregando secondo la loro religione; talvolta sono stati invitati in case delle famiglie coinvolte in questo progetto in occasione di feste anche religiose.
Spesso noi siamo incapaci di scavalcare divisioni e distanze culturali, ma i fondamenti dell'uomo, ad esempio ciò che viviamo quando mettiamo al mondo un figlio, quando qualcuno a noi caro soffre o si ammala, sono sempre le stesse! In queste esperienze radicate dell'uomo, tutti provano le stesse gioie, le stesse angosce, gli stessi dolori.
Quando qualcuno si rende conto che le sue emozioni sono le stesse di un altro, si verifica un immedesimazione reciproca che porta a eliminare la distanza tra i due.
Finché tu respingi l'altro o lo eviti, come puoi dire di conoscerlo? Accogliere non è facile, ma se io parto da schemi ideologici, da contrapposizioni politiche oppure da stereotipi senza entrare nel vissuto, senza cercare di capire cosa sta vivendo l’altro, come posso conoscere le persone?
Molte persone pensano che una volta arrivati qui, i migranti stiano in giro senza far niente con il telefonino in mano. Lei cosa ne pensa?
L'immaginario comune li ritrae così, ma per mille problemi di burocrazia è praticamente impossibile che loro possano lavorare. Di conseguenza, se essi non lavorano perché lo Stato stesso non li mette in condizione di poterlo fare, sono praticamente condannati a non far niente, rafforzando così il pregiudizio degli italiani; al contrario se lavorano, gli italiani si lamentano che i migranti rubano loro il lavoro.
Lei ha fatto anche un viaggio a ritroso seguendo le rotte dei migranti: ce lo può raccontare in breve?
Alla fine di marzo del 2016 ho deciso di fare un viaggio a Lampedusa, isola di sbarco dei ragazzi che ho ospitato per vedere i luoghi dove sono arrivati. Nella notte del 30 marzo avviene uno sbarco di 330 persone: grazie al pass che mi ha dato il parroco di Lampedusa posso assistere. E’ stato un momento molto forte vederli arrivare e scendere a terra. In questa occasione a Lampedusa raccolgo una pentola e uno scaldino oggetti appartenuti a migranti sbarcati.
Tornato a Cenate la domenica a cena faccio vedere questi oggetti ai miei ragazzi: per la prima volta mi raccontano il loro viaggio, mi fanno vedere le foto, parlano di Agadez in Niger dove i Tuareg si stanno trasformando in trafficanti di esseri umani.
Nel febbraio del 2017 decido con il parroco di Mapello di andare ad Agadez, un luogo piuttosto pericoloso e sconsigliato, per vedere uno dei luoghi da cui sono passati i ragazzi. Grazie all’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) incontro i “ritornanti” (link) nei campi di raccolta: mi dicono che il deserto è il maggior cimitero di migranti, più del Mediterraneo; mi raccontano storie di tortura, ma anche la loro vergogna di essere tornati indietro senza niente e la paura che i loro parenti non credano a quanto hanno vissuto. L’OIM in Niger si occupa proprio del loro recupero fisico e psicologico, oltre che di dar loro un piccolo contributo economico per non tornare a casa a mani vuote.
Questo viaggio è stato molto intenso.
Dopo il suo trasferimento, il progetto nella sua vecchia parrocchia continua?
Fortunatamente sì: nonostante io abbia cambiato parrocchia sono felice di poter dire che il progetto, grazie alla partecipazione del nuovo parroco di Cenate Sotto, sta andando avanti.
A cura di Marco Giavazzi, Melissa De Leonardis, Chiara Mazzoleni e Alessia Traina.